mercoledì 22 dicembre 2010

"Pianificare in contesti metropolitani:Reggio Città Metropolitana". La Tesi di Laurea più importante dell'anno nel Corso di Laurea in Urbanistica e che mi vedeva come Correlatore.

lunedì 13 settembre 2010

ALCUNI PUNTI FERMI DELLA RICERCA SULLA CITTÀ METROPOLITANA DI REGGIO CALABRIA

di Beniamino Cordova
Dottorando di Ricerca in Pianificazione Territoriale.
(pubblicato su strill.it il 13/09/2010)

Si è detto tanto in questo anno, ma non si è detto tutto.
Il tema è diventato addirittura l’asse portante per la formazione dei futuri urbanisti nel Corso di Laurea in “Urbanistica” della “Mediterranea”.
In uno dei tanti convegni al quale sono stato invitato come relatore ed in tutti i contributi sull’argomento che ho pubblicato (molti anche in questa testata online e tutti comunque inseriti all’interno del mio blog http://beniaminocordova.blogspot.com/) ho posto un quesito ai giuristi al quale nessuno ha dato risposta.
“Le leggi che trattano le aree metropolitane sono molto dettagliate ed incisive ma nessuna di queste aiuta a risolvere il vero problema che attanaglia tutte le aree metropolitane italiane (compresa la nostra): quali sono i criteri di dimensionamento dell’Area?
A questo punto gli Urbanisti entrano in campo e la letteratura scientifica di riferimento dice: “Uno dei criteri che può suggerire un primo dimensionamento dell’Area sono i flussi pendolari verso il centro principale, ossia l’attrazione che i centri maggiori esercitano verso i Comuni più piccoli che gravitano attorno ad essi”.
In questi mesi infiniti sono stati i dubbi degli amministratori locali manifestati in convegni e conferenze sull’argomento.
Quando i Sindaci dei Comuni localizzati nella provincia di Reggio, ma in posizione estremamente lontana dal centro principale, sostengono di non far parte della città metropolitana di Reggio perché non hanno nessun legame con la città-madre (ossia Reggio) hanno in parte ragione ed in parte torto.
Effettivamente i Comuni “troppo lontani”dal capoluogo, nel nostro caso, non hanno nessun legame con il centro principale ma questo non gli consente di considerarsi fuori dall’Area Metropolitana di Reggio Calabria.
In Europa e quindi anche in Italia esistono le Aree Metropolitane policentriche, è una cosa normalissima: Firenze – Prato – Pistoia; non esiste infatti l’Area Metropolitana di Firenze se non unita alle altre due città, agli altri due poli. Quindi ci sono dei Comuni che gravitano attorno a Firenze, altri che gravitano attorno a Prato ed altri ancora che gravitano attorno a Pistoia.
La nostra Area Metropolitana, dai dati in mio possesso, dalle ricerche che sto portando avanti all’interno del Dottorato di Ricerca in Pianificazione Territoriale e come correlatore di una innovativa tesi contestualizzata al territorio metropolitano, è divisa in tre poli: la Locride, la Piana ed appunto Reggio.
E nella Giunta di Locri il Sindaco ha addirittura assegnato una delega assessoriale alla “Città Metropolitana”.
Quando, sette mesi fa, ho sostenuto per la prima volta in un incontro pubblico la policentricità dell’Area Metropolitana di Reggio c’era diffidenza tra i tecnici e gli amministratori locali, ora fortunatamente l’idea è diventata di dominio pubblico.
I Sindaci dei Comuni di cui sopra, quando dicono che non hanno legami con Reggio hanno ragione, ma quando dicono di non avere rapporti con l’Area Metropolitana sbagliano, perché dai flussi pendolari sono note le gravitazioni di alcuni centri attorno al polo della Locride, della Piana o di Reggio, quindi attorno ad uno dei tre poli dell’Area Metropolitana di Reggio Calabria.
Dal censimento della popolazione dal 1951 ad oggi si evince la migrazione delle persone dai luoghi interni verso le aree di costa o verso i maggiori centri della Piana, concentrandosi soprattutto attorno ai tre poli. Questa scelta è dovuta principalmente alle funzioni extraurbane di influenza (centri di alta formazione, cultura, agenzie di media, promozione e distribuzione commerciale, snodi intermodali) dei poli attrattori.
Un altro motivo di migrazione verso centri maggiormente attrezzati e con una migliore condizione di accessibilità risulta essere la necessità di ovviare alla permanente assenza di infrastrutture viarie adeguate.
Punto fondamentale questo appena citato: le aree metropolitane del mondo hanno vissuto un processo di disurbanizzazione, cioè dell’abbandono del centro principale verso aree più lontane, processo ordinario quando esiste un sistema trasportistico efficiente in cui non risulta problematico esercitare la pratica del pendolarismo.
Difficile attuare nel nostro contesto lo stesso ragionamento, per questo motivo noi viviamo tutt’oggi un processo di urbanizzazione dei centri principali, sovraffollandoli enormemente.
Ma questo non è tutto: dalla proiezione della popolazione al 2030 si evince la scomparsa di decine di borghi storici e comuni montani, tutti a vantaggio dei tre poli dell’Area Metropolitana che sono le uniche aree che aumenteranno il numero di residenti.
È chiaro che in una futura pianificazione dei trasporti a scala metropolitana si dovrà tenere in considerazione l’evoluzione demografica e strutturale dei nostri territori, creando si degli unici assi di unione all’interno dell’Area Metropolitana (vedi per esempio la Metropolitana del Mare che ho proposto qualche anno fa e che è stato il titolo di una mia monografia), ma che siano il legame dei tre modelli di pianificazione dei trasporti che dovranno nascere contestualizzati ai tre poli per renderli autonomi a livello locale ed extralocale.
In una strategia di pianificazione a scala metropolitana della nostra area non possiamo ignorare il respiro europeo e mediterraneo del nuovo Ente.
Sappiamo bene che una città metropolitana si confronta a livello europeo con le altre città metropolitane – “fa rete” per usare un termine moderno – all’interno della Rete Metrex (The network of European Metropolitan Regions and Areas (Metrex) è stata fondata a Glasgow nel 1996; lo scopo primario di questa rete è uno scambio di esperienze, opinioni sulla pianificazione territoriale e spaziale, ma anche quello di valutare le problematiche gestionali e politiche) che ha come obiettivo la nascita di strategie condivise soprattutto nello sviluppo urbano tra le città consorelle.
Sul fronte Mediterraneo, Reggio ha coordinato il primo incontro sulle Città del Mediterraneo che si è svolto ad ottobre 2009.
Il documento che ne è uscito afferma che la cooperazione ed il partenariato si baseranno tra le tante cose anche sulle infrastrutture, sui trasporti e soprattutto su un approccio condiviso alle strategie ed alle politiche di sviluppo urbano.
Il cerchio si è chiuso!
Essendo una Città Metropolitana, Reggio potrà assumere la funzione di collante tra le politiche di sviluppo urbano di natura Europea e le politiche di sviluppo urbano che nasceranno da questa cooperazione tra le città del Mediterraneo.
La ricerca che sto portando avanti, e che si concluderà nei prossimi mesi, parte da questi punti, ma non solo da questi, per cercare di dare delle risposte al tema che più degli altri tormenta i reggini e gli studiosi che da oltre un anno si occupano dell’argomento.

domenica 15 agosto 2010

Presentazione del libro "Fuori dalle barricate - fotoracconto della Rivolta di Reggio"


Promossa e organizzata dall'Associazione Laurentianum, mercoledì 18 agosto alle 21 in Piazza SS Trinità a Marina di San Lorenzo (RC), si terrà la presentazione di "Fuori dalle barricate - Fotoracconto della Rivolta di Reggio" (Città Del Sole Edizioni), lavoro di Fabio Cuzzola a cura di Valentina Confido per raccontare i Moti di Reggio. Dal 14 luglio 1970, giorno di inizio di quella rivolta di popolo che tutti inizialmente, in primis la stampa, etichettarono come rivolta fascista, pennacchio della destra, sommossa eversiva e facinorosa, ad oggi, 40 anni dopo, in cui tutti, dalle forze politiche ai mezzi di comunicazione, sono pronti a rivedere le posizioni di allora. La rivolta di Reggio fu l’ultima rivolta urbana che la nostra Repubblica ricordi e fu anche l’ultima insurrezione di popolo nata per inseguire con convinzione quel concetto di libertà e dignità che spesso oggi latita e rivendicare quel ruolo storico che oscuri accordi tentavano di cancellare. Una Rivolta quindi senza distinzione di classe che raccoglieva all’interno tutti i segmenti della società, dai professionisti ai pensionati, dagli studenti agli operai, dai preti alle donne, uniti nello stesso intento e con gli stessi obiettivi. La lotta, come sappiamo fu dura ed estenuante e lasciò sul campo 5 vittime oltre a centinaia di feriti e vide la nascita e la fine politica di alcune figure di spicco di quegli anni: da Ciccio Franco al Sindaco Battaglia, da Giuseppe Reale a Rocco Minasi. Ancora oggi quindi, dopo 40 anni, la Rivolta di Reggio suscita interesse e curiosità tra gli storici e la gente comune sia per le caratteristiche anomale della sommossa sia per quei lunghi 7 mesi di lotta. Fabio Cuzzola con il suo fotoracconto cercherà di far rivivere quei momenti e ripercorrere quelle tappe. Racconterà tutto ciò il 18 agosto alle 21 nella piazza di Marina di San Lorenzo insieme agli altri ospiti della serata, scelti in base al loro profilo politico, storico e professionale con l’intento preciso di illustrare alla platea, in maniera semplice, la storia di quei giorni, i motivi che hanno spinto il popolo a ribellarsi, l’evolversi degli avvenimenti, le conseguenze che la popolazione ha subito, l’eco che la rivolta ha avuto nel panorama nazionale ed internazionale e il trattamento che la stampa ha riservato ai fatti di Reggio. L’Associazione Laurentianum ha scelto quindi di invitare l’ex Senatore della Repubblica Renato Meduri, memoria storica della Rivolta, protagonista di quei giorni di luglio 1970, a relazionare, illustrare e collocare fatti e personaggi. Farà parte dei lavori anche il Presidente Provinciale di Azione Giovani Francesco Spanò che dipingerà il quadro politico giovanile della Destra di oggi: sarà proprio Spanò a farci intendere se i giovani sono stati in grado di raccogliere l’eredità di chi ha lottato, nel bene e nel male, per la città di Reggio Calabria. L’aspetto storico della Rivolta sarà affidato a Franco Arillotta, illustre storico reggino, con decine di pubblicazioni all’attivo e docente a contratto di Storia e Cultura della Calabria presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Le conclusioni saranno affidate a Felice Manti dinamico giornalista d’inchiesta de Il Giornale, che illustrerà il ruolo della stampa ieri e oggi nelle lotte di piazza senza tralasciare il contesto politico attuale. L’incontro, che prevede anche un dibattito con la cittadinanza, verrà aperto da Beniamino Cordova che ha fortemente voluto questo appuntamento e moderato da Franco Arcidiaco, editore di Città del Sole.

giovedì 6 maggio 2010

mercoledì 3 marzo 2010

Spazi pubblici: conoscere per pianificare

Giovedì 18 Febbraio 2010


di Beniamino Cordova* -
Dottorando di Ricerca presso l'Università Mediterranea di Reggio Calabria


Quali sono per noi gli spazi pubblici? Che significato gli attribuiamo? Che importanza rivestono?Queste sono le domande rituali di un cittadino attento, che valuta, affronta e si confronta con un problema di grandissima attualità come il ruolo che gli spazi pubblici occupano nelle nostre città.

A queste domande che ci poniamo, attraverso le opportune conoscenze, risponde il corso di laurea in Urbanistica che attraverso il suo Presidente, Prof. Enrico Costa, propone un’attenta lettura delle dinamiche della città e del territorio.

E’ inutile nascondere a noi stessi che ormai le strade e le piazze non sono più luoghi di straordinaria concentrazione sociale, culturale e di amalgama urbanistico/architettonico. Per i primi due parametri (sociale e culturale), ad onor del vero, né la piazza, né la strada custodivano l’esclusiva; ossia, le relazioni sociali non trovavano - solo nella strada - o - solo nella piazza - l’humus generatore - ma lì e solo lì – ottenevano i presupposti per un radicamento spontaneo.
E per i rapporti tra urbanistica ed architettura? Sarebbe una storia troppa lunga da raccontare; è utile però riprendere la domanda che persino i distratti si pongono: esiste una bella architettura senza un adeguato contesto urbanistico? Esiste una bella città, tracciata bene, senza una bell’architettura contestualizzata?

Certo, se dovessimo riprendere le parole del regista Francesco Rosi in occasione della Laurea ad Honorem in Pianificazione Territoriale Urbanistica e Ambientale diremmo: “L’urbanistica viene prima”.
Infatti è proprio l’urbanistica e quindi gli strumenti urbanistici quelli che danno gli indirizzi di pianificazione e di progettazione per chi opera sul territorio.

La scuola di pensiero italiana sul tema del recupero dei luoghi pubblici come incentivo per incrementare le relazioni sociali non è molto fiduciosa; sostiene infatti che tanto possono fare gli urbanisti per realizzare ottimi spazi pubblici, ben dotati di funzioni d’interesse, ma poco, pochissimo, possono fare invece, per reimpiantare le relazioni scomparse ed insieme a loro, allo stesso modo, nulla possono fare antropologi, sociologi, economisti e politici.
Questa opinione non trova riscontro in Europa, anzi addirittura proprio in Europa esiste un approccio totalmente opposto.
Mentre traccio questa mia tavola penso all’esperienza danese: la città di Copenhagen, infatti, si è spesa politicamente e tecnicamente per risolvere il problema della poca frequenza e quindi dell’assenza di vita (inteso come spazio vissuto) negli spazi di aggregazione all’interno del contesto urbano.

L’Urban Space Action Plan 2006, innovativo strumento danese di pianificazione degli spazi pubblici, considera l’intera rete e valorizza elementi di connessione come strade pedonali, piazze e vie commerciali. L’obiettivo è stato quello di privilegiare tanti interventi di piccole dimensioni ma sparsi per l’intera città; questo consente di evitare grossi investimenti di capitale e consente anche di allacciare le periferie al centro pianificando in quei luoghi spazi urbani come nodi della rete. I risultati sono stati egregi: la frequenza degli individui negli spazi pubblici di Copenhagen in pochissimi anni si è addirittura triplicata.

Un altro esempio che ha creato dibattito è quello di Barcellona, la città più europea tra quelle europee.
La grande partecipazione della società civile nella politica urbanistica di Barcellona è molto conosciuta e considerata; è una prassi attiva e costante sin dal 1964 con la nascita delle Asociaciones de vecinos ed è tutt’ora regolarmente praticata.
Gli interventi nel centro storico di Barcellona hanno seguito, sin dall’abbattimento delle mura nel XIX secolo, la politica dello sventramento: Cerdà per esempio, giustificando l’azione con esigenze di tipo igienico, tracciò la via Laietana sino al porto.
Il recupero di Barcellona nella fase dal 1996 al 2000 è stata un’operazione pianificata con estrema scrupolosità. Gli interventi diretti al recupero degli spazi pubblici cittadini hanno visto l’Industria culturale come protagonista di un elemento nuovo, una figura di spicco.
La pianificazione dei luoghi pubblici barcellonesi, difatti, è avvenuta con l’inserimento di strutture dalla prestigiosa firma e dal grande significato culturale: il Centro Culturale Contemporaneo de Barcelona, il Museo de Arte Contemporaneo de Barcelona ed infinite biblioteche. Qualche pubblicazione in merito a quanto detto sostiene la teoria della “metastasi benigna”, ovvero effetti benefici secondari che seguono all’inserimento di nuove attività nella parte malata e vecchia della città.

Le operazioni ad onor del vero sono state condotte secondo i criteri della demolizione del tessuto storico, anche in questo caso, come in quello di Cerdà, per esigenze di carattere igienico, con la naturale espulsione, però inevitabilemente, di una larga fascia di residenti di classi sociali medio – basse: questa scelta ha creato malumori e ombre sulla grande operazione di rigenerazione urbanistica.
E’ chiaro che ci troviamo di fronte ad una pianificazione degli spazi pubblici alquanto coraggiosa. Tutti gli interventi sopra descritti sono stati inseriti in contesti assolutamente differenti e difficili da far amalgamare, non sono state tenute in considerazione le peculiarità dei luoghi, sono stati realizzati spazi pubblici come appendice di scrigni culturali o migliorati (?) con intromissioni di elevato design, sono state minacciate le relazioni sociali e l’integrazione tra etnie; inoltre questi interventi hanno generato la scomparsa di molti luoghi di incontro dalla forte identità e di 200 piccoli bar rionali.

Tutte le teorie di pianificazione urbanistica non possono che essere lontane da questi sistemi che non considerano l’identità originaria, demoliscono invece di recuperare, sventrano invece di connettere, agiscono autonomamente invece di dialogare.
Alla luce di tutto e considerato quanto appena detto Barcellona è diventata la città preferita anche dagli urbanisti, dagli architetti e dai sociologi.
Come è possibile?
Probabilmente è vero ciò che dice la scuola di pensiero italiana (illustrata ampiamente nel testo): si possono realizzare ottimi interventi senza però avere la certezza di recuperare le relazioni scomparse. Stesso discorso vale per Barcellona anche se nella città catalana esiste una situazione paradossale: tanti spazi sono stati recuperati ma nessuno di questi è riuscito a riproporre i rapporti sociali antecedenti all’intervento ma incredibilmente gli stessi interventi, falliti per alcuni punti di vista, hanno riscosso successo per altri, vedi l’indotto di migliaia di giovani urbanisti ed architetti provenienti da tutto il mondo.

Lasciando il contesto europeo e spostandoci oltreoceano ci dobbiamo confrontare con la realtà newyorkese, altro caso eclatante che ha generato dibattito per le dinamiche strane e sconvolgenti.
A New York la prima politica imperniata sugli spazi pubblici del 1811 ha limitato la realizzazione di ampi spazi comuni, destinando le strade come principali luoghi di aggregazione frequentati da tutte le classi sociali; a questi spazi si aggiungeva il Central Park, destinato invece alle classi agiate e benestanti.
La situazione attuale si è completamente capovolta: a New York lo spazio pubblico, oggi, ricopre un significato straordinario.
La struttura urbana, caratterizzata da una evidente esplosione verso l’alto, accetta come unica forma di spazio pubblico l’atrio di accesso al grattacielo anche se il “pubblico” (inteso come individui) non viene accettato se non annunciato.
Troviamo anche situazioni in cui lo spazio pubblico è inglobato all’interno della struttura: è il caso del progetto dell’edificio di 100 piani proposto all’inizio del XX secolo da Theodore Starret che prevedeva piazze pubbliche ogni 20 piani.

In realtà, a differenza delle città europee, la politica urbana attuata a New York è stata sempre quella di privatizzare i luoghi pubblici e favorire l’uso delle macchine. A questa politica, però, si contrappone l’azione decisa di alcuni movimenti civici che hanno preteso maggiore sensibilità per i problemi ambientali e per la sostenibilità intesa sia come environmental quality, sia come quality of life.

Gli effetti di questa contestazione hanno avuto come risultato il Bicycle Master Plan, ossia l’inserimento di nuove piste ciclabili accompagnate da un’adeguata campagna di sensibilizzazione.
A questa pratica, purtroppo, si contrappone una politica di concentrazione di grandi contenitori commerciali nelle zone periferiche con lo scopo di creare nuovi luoghi pubblici standardizzati in sostituzione di quelli naturali. La stessa politica ha concesso ai privati, negli anni 90, la possibilità di acquistare i piccoli spazi urbani rionali che, grazie anche al contemporaneo boom edilizio, sono stati trasformati in edifici residenziali.

Occorre anche sottolineare che negli anni 60, nell’area di Manhattan, è stata avanzata la possibilità di costruire con una densità maggiore a patto di realizzare luoghi pubblici all’interno o all’esterno degli edifici. Sono stati realizzati più di 500 spazi pubblici, (strade, portici, parchi, terrazze), però pochi di questi hanno raggiunto gli obiettivi previsti soprattutto perché non sono state rispettate le norme previste che imponevano un’appropriata accessibilità ai luoghi ed opportuni elementi di arredo.

L’obiettivo di questa analisi era quello di esaminare e confrontare, seppur per sommi capi, esperienze diverse in contesti diversi, europei ed extraeuropei.
E’ evidente l’esistenza di un approccio eterogeneo alla pianificazione degli spazi pubblici, che parte da principi diversi e si pone obiettivi diversi.
Tra le tre città prese ad esempio, Copenhagen è quella che ha soddisfatto in pieno le aspettative. La politica messa in atto nella città danese è di quelle poco invasive, economiche e condivise dai cittadini ed ha raggiunto evidenti risultati positivi.
Certo, ogni realtà ha le proprie peculiarità ed anche i propri desideri, ma il caso danese potrebbe diventare quasi un esempio da seguire per i contesti urbani che si trovano nella medesima situazione.

Utilizzare il metodo Barcellona sarebbe, probabilmente, per le città italiane, un elemento di grande rischio e difficilmente vendibile politicamente. Non rientra tra le nostre aspettative anche se non è escluso un utilizzo in contesti dal potenziale culturale scarsamente espresso; rappresenterebbe in ogni caso una sfida intrigante da valutare con attenzione.

La politica realizzata invece nella Big Apple è stata quella di mettere in atto un sistema di negoziazione dei suoli non pianificabile e quindi scarsamente gestibile da una politica volta alla pianificazione degli spazi pubblici. Lo scopo può essere condivisibile (nascita di spazi pubblici realizzati da privati) anche in qualche città italiana ma il metodo utilizzato a Manhattan troverebbe scarso riscontro nella nostra pratica.

Purtroppo in Italia, soprattutto nella parte meridionale, non esiste alcun tipo di pianificazione dei luoghi pubblici, né sottoforma di politiche mal riuscite né di intenti mai concretizzati. Non si è arrivati ancora persino a porre il problema di una eventuale possibilità di intervenire sugli spazi pubblici secondo una pianificazione di ampio respiro.
La sfida da cogliere è proprio questa, operare su un territorio vergine come quello meridionale; se poi ci si concentra addirittura in contesti di area metropolitana allora la sfida si fa enormemente affascinante.
Sostengo questo pensando alla Metropoli dello Stretto.
Di fronte a questa nuova realtà, alla possibilità di intervenire su un’area urbanizzata ma di territorio vasto, ormai da considerare unica area, esiste la necessità di pianificare il territorio secondo linee omogenee. Niente di meglio che intervenire con una pianificazione seria degli spazi pubblici, che potrebbero diventare il primo collante ideale tra le due città, nel rispetto delle diverse inclinazioni culturali e identitarie.

Nel caso di Reggio e Messina sia l’esperienza danese che quella catalana risulterebbero attuabili, anche se, in un contesto urbanistico come quello dell’Area Metropolitana dello Stretto, nuovo, da pianificare, sarebbe opportuno ed imprescindibile un approccio democratico, condiviso e di grande partecipazione degli attori locali, pratica purtroppo, tanto proclamata ma, ancora poco valorizzata.
Proporre una pianificazione degli spazi pubblici dell’Area Metropolitana dello Stretto, se fatta bene, con un pò di coraggio, ma soprattutto con obiettivi precisi, può raggiungere traguardi straordinari.
Siamo ancora all’inizio ma ci stiamo lavorando!

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