mercoledì 3 marzo 2010

Spazi pubblici: conoscere per pianificare

Giovedì 18 Febbraio 2010


di Beniamino Cordova* -
Dottorando di Ricerca presso l'Università Mediterranea di Reggio Calabria


Quali sono per noi gli spazi pubblici? Che significato gli attribuiamo? Che importanza rivestono?Queste sono le domande rituali di un cittadino attento, che valuta, affronta e si confronta con un problema di grandissima attualità come il ruolo che gli spazi pubblici occupano nelle nostre città.

A queste domande che ci poniamo, attraverso le opportune conoscenze, risponde il corso di laurea in Urbanistica che attraverso il suo Presidente, Prof. Enrico Costa, propone un’attenta lettura delle dinamiche della città e del territorio.

E’ inutile nascondere a noi stessi che ormai le strade e le piazze non sono più luoghi di straordinaria concentrazione sociale, culturale e di amalgama urbanistico/architettonico. Per i primi due parametri (sociale e culturale), ad onor del vero, né la piazza, né la strada custodivano l’esclusiva; ossia, le relazioni sociali non trovavano - solo nella strada - o - solo nella piazza - l’humus generatore - ma lì e solo lì – ottenevano i presupposti per un radicamento spontaneo.
E per i rapporti tra urbanistica ed architettura? Sarebbe una storia troppa lunga da raccontare; è utile però riprendere la domanda che persino i distratti si pongono: esiste una bella architettura senza un adeguato contesto urbanistico? Esiste una bella città, tracciata bene, senza una bell’architettura contestualizzata?

Certo, se dovessimo riprendere le parole del regista Francesco Rosi in occasione della Laurea ad Honorem in Pianificazione Territoriale Urbanistica e Ambientale diremmo: “L’urbanistica viene prima”.
Infatti è proprio l’urbanistica e quindi gli strumenti urbanistici quelli che danno gli indirizzi di pianificazione e di progettazione per chi opera sul territorio.

La scuola di pensiero italiana sul tema del recupero dei luoghi pubblici come incentivo per incrementare le relazioni sociali non è molto fiduciosa; sostiene infatti che tanto possono fare gli urbanisti per realizzare ottimi spazi pubblici, ben dotati di funzioni d’interesse, ma poco, pochissimo, possono fare invece, per reimpiantare le relazioni scomparse ed insieme a loro, allo stesso modo, nulla possono fare antropologi, sociologi, economisti e politici.
Questa opinione non trova riscontro in Europa, anzi addirittura proprio in Europa esiste un approccio totalmente opposto.
Mentre traccio questa mia tavola penso all’esperienza danese: la città di Copenhagen, infatti, si è spesa politicamente e tecnicamente per risolvere il problema della poca frequenza e quindi dell’assenza di vita (inteso come spazio vissuto) negli spazi di aggregazione all’interno del contesto urbano.

L’Urban Space Action Plan 2006, innovativo strumento danese di pianificazione degli spazi pubblici, considera l’intera rete e valorizza elementi di connessione come strade pedonali, piazze e vie commerciali. L’obiettivo è stato quello di privilegiare tanti interventi di piccole dimensioni ma sparsi per l’intera città; questo consente di evitare grossi investimenti di capitale e consente anche di allacciare le periferie al centro pianificando in quei luoghi spazi urbani come nodi della rete. I risultati sono stati egregi: la frequenza degli individui negli spazi pubblici di Copenhagen in pochissimi anni si è addirittura triplicata.

Un altro esempio che ha creato dibattito è quello di Barcellona, la città più europea tra quelle europee.
La grande partecipazione della società civile nella politica urbanistica di Barcellona è molto conosciuta e considerata; è una prassi attiva e costante sin dal 1964 con la nascita delle Asociaciones de vecinos ed è tutt’ora regolarmente praticata.
Gli interventi nel centro storico di Barcellona hanno seguito, sin dall’abbattimento delle mura nel XIX secolo, la politica dello sventramento: Cerdà per esempio, giustificando l’azione con esigenze di tipo igienico, tracciò la via Laietana sino al porto.
Il recupero di Barcellona nella fase dal 1996 al 2000 è stata un’operazione pianificata con estrema scrupolosità. Gli interventi diretti al recupero degli spazi pubblici cittadini hanno visto l’Industria culturale come protagonista di un elemento nuovo, una figura di spicco.
La pianificazione dei luoghi pubblici barcellonesi, difatti, è avvenuta con l’inserimento di strutture dalla prestigiosa firma e dal grande significato culturale: il Centro Culturale Contemporaneo de Barcelona, il Museo de Arte Contemporaneo de Barcelona ed infinite biblioteche. Qualche pubblicazione in merito a quanto detto sostiene la teoria della “metastasi benigna”, ovvero effetti benefici secondari che seguono all’inserimento di nuove attività nella parte malata e vecchia della città.

Le operazioni ad onor del vero sono state condotte secondo i criteri della demolizione del tessuto storico, anche in questo caso, come in quello di Cerdà, per esigenze di carattere igienico, con la naturale espulsione, però inevitabilemente, di una larga fascia di residenti di classi sociali medio – basse: questa scelta ha creato malumori e ombre sulla grande operazione di rigenerazione urbanistica.
E’ chiaro che ci troviamo di fronte ad una pianificazione degli spazi pubblici alquanto coraggiosa. Tutti gli interventi sopra descritti sono stati inseriti in contesti assolutamente differenti e difficili da far amalgamare, non sono state tenute in considerazione le peculiarità dei luoghi, sono stati realizzati spazi pubblici come appendice di scrigni culturali o migliorati (?) con intromissioni di elevato design, sono state minacciate le relazioni sociali e l’integrazione tra etnie; inoltre questi interventi hanno generato la scomparsa di molti luoghi di incontro dalla forte identità e di 200 piccoli bar rionali.

Tutte le teorie di pianificazione urbanistica non possono che essere lontane da questi sistemi che non considerano l’identità originaria, demoliscono invece di recuperare, sventrano invece di connettere, agiscono autonomamente invece di dialogare.
Alla luce di tutto e considerato quanto appena detto Barcellona è diventata la città preferita anche dagli urbanisti, dagli architetti e dai sociologi.
Come è possibile?
Probabilmente è vero ciò che dice la scuola di pensiero italiana (illustrata ampiamente nel testo): si possono realizzare ottimi interventi senza però avere la certezza di recuperare le relazioni scomparse. Stesso discorso vale per Barcellona anche se nella città catalana esiste una situazione paradossale: tanti spazi sono stati recuperati ma nessuno di questi è riuscito a riproporre i rapporti sociali antecedenti all’intervento ma incredibilmente gli stessi interventi, falliti per alcuni punti di vista, hanno riscosso successo per altri, vedi l’indotto di migliaia di giovani urbanisti ed architetti provenienti da tutto il mondo.

Lasciando il contesto europeo e spostandoci oltreoceano ci dobbiamo confrontare con la realtà newyorkese, altro caso eclatante che ha generato dibattito per le dinamiche strane e sconvolgenti.
A New York la prima politica imperniata sugli spazi pubblici del 1811 ha limitato la realizzazione di ampi spazi comuni, destinando le strade come principali luoghi di aggregazione frequentati da tutte le classi sociali; a questi spazi si aggiungeva il Central Park, destinato invece alle classi agiate e benestanti.
La situazione attuale si è completamente capovolta: a New York lo spazio pubblico, oggi, ricopre un significato straordinario.
La struttura urbana, caratterizzata da una evidente esplosione verso l’alto, accetta come unica forma di spazio pubblico l’atrio di accesso al grattacielo anche se il “pubblico” (inteso come individui) non viene accettato se non annunciato.
Troviamo anche situazioni in cui lo spazio pubblico è inglobato all’interno della struttura: è il caso del progetto dell’edificio di 100 piani proposto all’inizio del XX secolo da Theodore Starret che prevedeva piazze pubbliche ogni 20 piani.

In realtà, a differenza delle città europee, la politica urbana attuata a New York è stata sempre quella di privatizzare i luoghi pubblici e favorire l’uso delle macchine. A questa politica, però, si contrappone l’azione decisa di alcuni movimenti civici che hanno preteso maggiore sensibilità per i problemi ambientali e per la sostenibilità intesa sia come environmental quality, sia come quality of life.

Gli effetti di questa contestazione hanno avuto come risultato il Bicycle Master Plan, ossia l’inserimento di nuove piste ciclabili accompagnate da un’adeguata campagna di sensibilizzazione.
A questa pratica, purtroppo, si contrappone una politica di concentrazione di grandi contenitori commerciali nelle zone periferiche con lo scopo di creare nuovi luoghi pubblici standardizzati in sostituzione di quelli naturali. La stessa politica ha concesso ai privati, negli anni 90, la possibilità di acquistare i piccoli spazi urbani rionali che, grazie anche al contemporaneo boom edilizio, sono stati trasformati in edifici residenziali.

Occorre anche sottolineare che negli anni 60, nell’area di Manhattan, è stata avanzata la possibilità di costruire con una densità maggiore a patto di realizzare luoghi pubblici all’interno o all’esterno degli edifici. Sono stati realizzati più di 500 spazi pubblici, (strade, portici, parchi, terrazze), però pochi di questi hanno raggiunto gli obiettivi previsti soprattutto perché non sono state rispettate le norme previste che imponevano un’appropriata accessibilità ai luoghi ed opportuni elementi di arredo.

L’obiettivo di questa analisi era quello di esaminare e confrontare, seppur per sommi capi, esperienze diverse in contesti diversi, europei ed extraeuropei.
E’ evidente l’esistenza di un approccio eterogeneo alla pianificazione degli spazi pubblici, che parte da principi diversi e si pone obiettivi diversi.
Tra le tre città prese ad esempio, Copenhagen è quella che ha soddisfatto in pieno le aspettative. La politica messa in atto nella città danese è di quelle poco invasive, economiche e condivise dai cittadini ed ha raggiunto evidenti risultati positivi.
Certo, ogni realtà ha le proprie peculiarità ed anche i propri desideri, ma il caso danese potrebbe diventare quasi un esempio da seguire per i contesti urbani che si trovano nella medesima situazione.

Utilizzare il metodo Barcellona sarebbe, probabilmente, per le città italiane, un elemento di grande rischio e difficilmente vendibile politicamente. Non rientra tra le nostre aspettative anche se non è escluso un utilizzo in contesti dal potenziale culturale scarsamente espresso; rappresenterebbe in ogni caso una sfida intrigante da valutare con attenzione.

La politica realizzata invece nella Big Apple è stata quella di mettere in atto un sistema di negoziazione dei suoli non pianificabile e quindi scarsamente gestibile da una politica volta alla pianificazione degli spazi pubblici. Lo scopo può essere condivisibile (nascita di spazi pubblici realizzati da privati) anche in qualche città italiana ma il metodo utilizzato a Manhattan troverebbe scarso riscontro nella nostra pratica.

Purtroppo in Italia, soprattutto nella parte meridionale, non esiste alcun tipo di pianificazione dei luoghi pubblici, né sottoforma di politiche mal riuscite né di intenti mai concretizzati. Non si è arrivati ancora persino a porre il problema di una eventuale possibilità di intervenire sugli spazi pubblici secondo una pianificazione di ampio respiro.
La sfida da cogliere è proprio questa, operare su un territorio vergine come quello meridionale; se poi ci si concentra addirittura in contesti di area metropolitana allora la sfida si fa enormemente affascinante.
Sostengo questo pensando alla Metropoli dello Stretto.
Di fronte a questa nuova realtà, alla possibilità di intervenire su un’area urbanizzata ma di territorio vasto, ormai da considerare unica area, esiste la necessità di pianificare il territorio secondo linee omogenee. Niente di meglio che intervenire con una pianificazione seria degli spazi pubblici, che potrebbero diventare il primo collante ideale tra le due città, nel rispetto delle diverse inclinazioni culturali e identitarie.

Nel caso di Reggio e Messina sia l’esperienza danese che quella catalana risulterebbero attuabili, anche se, in un contesto urbanistico come quello dell’Area Metropolitana dello Stretto, nuovo, da pianificare, sarebbe opportuno ed imprescindibile un approccio democratico, condiviso e di grande partecipazione degli attori locali, pratica purtroppo, tanto proclamata ma, ancora poco valorizzata.
Proporre una pianificazione degli spazi pubblici dell’Area Metropolitana dello Stretto, se fatta bene, con un pò di coraggio, ma soprattutto con obiettivi precisi, può raggiungere traguardi straordinari.
Siamo ancora all’inizio ma ci stiamo lavorando!

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